Perchè vengono gli attacchi di panico

Pubblico di seguito la spiegazione di Paolo Roccato riguardante i processi psicologici che sono presenti nella comparsa degli attacchi di panico:

La psicodinamica degli attacchi di panico è complessa, non nel senso di “complicata”, ma in quello di “molteplice”, “fatta di più elementi”.

Due sono i livelli di malfunzionamento della mente in chi soffre di attacchi di panico: il livello della percezione delle emozioni e il livello della gestione delle emozioni. Questi due livelli sono tra di loro interconnessi. È ovvio, infatti, che non è possibile attivarsi se non per cercare di gestire gli accadimenti che si sono in qualche modo percepiti. Questi due livelli, però, hanno anche un certo grado di autonomia: il modello di gestione a suo tempo imparato e poi abitualmente adottato tende a essere adottato nuovamente, soprattutto nell’emergenza, anche dopo che si è appreso a decodificare gli accadimenti in modi più adeguati, ben differenti da quelli di allora. In ogni caso, però, i due livelli si influenzano reciprocamente, nello sviluppo e nel consolidamento, sia della patologia sia della terapia. Per esempio: se io non colgo le connessioni fra le sensazioni corporee che un’emozione mi dà, percepirò solo le sensazioni e non l’emozione, per cui se gestirò qualche cosa, cercherò di gestire quelle sensazioni e non l’emozione intera. Viceversa: se io gestisco come insensate le componenti corporee di una emozione, renderò più difficile un mio percepire la loro sensatezza nel tutto unitario dell’emozione. E se nella terapia imparerò a riconoscere la sensatezza delle mie esperienze, imparerò anche a gestirle meglio. Viceversa, se imparerò a gestir meglio le mie esperienze, sarò più facilitato nel percepirle più adeguatamente. Questo, in effetti, è quello che accade nella maggioranza dei casi.

L’ “analfabetismo emozionale” La più importante delle radici degli attacchi di panico è costituita dall’incapacità di percepire e riconoscere le emozioni, come conseguenza di una specie di “analfabetismo emozionale”, che si è strutturato progressivamente nel corso della vita, di pari passo con la strutturazione del Sé. Il paziente, non riuscendo a riconoscere l’emozione come un accadimento mentale unitario, percepisce slegate fra loro le singole espressioni fisiche di essa. È come se percepisse slegate tra loro le tessere di un mosaico. Non possono che apparirgli del tutto prive di senso. Ma il “mosaico”, che lui non riesce a integrare, e di cui non ha consapevolezza perché neppure lo percepisce, non è esterno a lui. Lo riguarda direttamente. È dentro di lui. Sensazioni, quindi, fortissime e insensate. È allora un tentativo di integrazione quello che il paziente fa, quando cerca di ricomporre le tessere “insensate”, trattandole come fossero “sintomi” di qualche guaio biologico. È l’attivazione di una intelligenza. Che però sbaglia. L’errore sta nel fatto che (almeno “localmente”, in quella specifica esperienza) non è disponibile una intelligenza emotiva, ma soltanto una intelligenza cognitiva, che si mette a osservare “dall’esterno”, alla lontana, e che quindi si muove come fosse sorda e cieca verso le emozioni in atto, perché, in questi casi, si attiva in modo scisso dallo stesso mondo delle emozioni che le si presenta.

La percezione dell’esperienza è stata strutturata prescindendo proprio dall’emozione che si è attivata nell’esperienza medesima e che ne costituisce il nocciolo essenziale. L’emozione è stata, sì, percepita nelle sue singole componenti, ma è stata misconosciuta nel suo insieme. Percepita come fosse de-strutturata nelle sue componenti sensoriali, che sono rimaste tra di loro scisse. In quelle condizioni, la cosa più ragionevole che il soggetto, nella nostra cultura, può fare per strutturare una “figura” che si stagli sensata dallo “sfondo” indifferenziato è pensare di essere ammalato di una sconosciuta malattia fulminante. E si allarma, ovviamente. Con i dati al momento a sua disposizione, sta funzionando bene. “Fanno presto a dirmi: ‘non è niente’. Vorrei vederli io, cosa farebbero loro al mio posto!”, protestano i pazienti contro le pseudorassicurazioni profuse a piene mani da parenti, amici e, purtroppo, spesso anche dai terapeuti. Non trovando un nesso riconoscibile, il paziente si terrorizza, e, nella prospettiva di una imminente catastrofe, pensa (più precisamente: “sente”) come unica risorsa disponibile nell’immediato la fuga dalla situazione ansiogena, e come unica risorsa disponibile per il futuro la prevenzione, attraverso l’evitamento di ogni situazione potenzialmente ansiogena. Per questa strada, progressivamente, il paziente tende a proteggersi e ad evitare ogni situazione vitale, in quanto attivatrice di emozioni, col risultato di impoverire sempre di più la propria esistenza.

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