Riporto molto volentieri un articolo del collega A. Zaffiro. Questo articolo a mio avviso contiene delle notazioni molto importanti rispetto ad una reale prevenzione nei Disturbi Alimentari.
Sottrarmi a tutte le buone e cattive intenzioni
Introduzione
Lo sguardo, e la relativa clinica, segna un tratto specifico dei disturbi alimentari. Non tutti, ovviamente, e la presente nota non può che riassumere semplicisticamente un argomento che meriterebbe ben altro approfondimento. Il controllo dell’immagine è – potremmo dire – la cifra specifica di queste patologie. Si tratta di un controllo che se da una parte segna una soddisfazione rinviata asintoticamente, dall’altra giustifica questo rinvio tramite una cortocircuitazione della dimensione simbolica: si dimagrisce o si ingrassa senza parlarne, o quando se ne parla questa parola non fa effetto, riducendosi a chiacchiera. Questo vale anche per altre dimensioni dell’immagine: dalla bellezza fisica a quella morale, dai risultati scolastici a quelli nel lavoro, da quelli in palestra a quelli sulla bilancia, secondo tutte le possibili declinazioni dell’ideale, tanto in positivo come in negativo.
Differenziazione
Al netto degli effetti biologici e dei loro correlati neurologici, che risultano secondari e complicano il quadro, questo lavoro sull’immagine come effetto di un cortocircuito simbolico, segna al contempo il raccordo e lo spartiacque di questi disturbi rispetto alle tossicomanie: se da una parte abbiamo infatti una priorità logica dell’immagine rispetto ai suoi effetti sul corpo, dall’altra queste polarità si invertono. Il decadimento corporeo del tossicomane risulta più un esito del proprio controllo autistico delle sensazioni, esercitato tramite la sostanza, che un dato primario.
La clinica differenziale necessita pertanto qui di una fine distinzione fra priorità logica della sensazione da una parte, che può essere perseguita anche tramite la fame, e priorità logica dell’immagine dall’altra, che può essere perseguita anche tramite aiuti chimici. Ciò che accomuna questi disturbi è l’indifferenza al registro simbolico, cioè alla parola, che non fa presa sul soggetto, polarizzandosi invece attorno allo sballo, o attorno all’immagine. La dimensione del patto, che implica il parlare d’Altro, è per entrambi priva di efficacia.
Sguardo
Dobbiamo allora chiederci come funzioni questo ricorso diretto allo sguardo, quali risonanze trovi dal lato dell’Altro, e quale ne possa essere una clinica efficace dal punto di vista analitico. Questo “dal punto di vista analitico” va però specificato, perché se da una parte dev’essere raccordato con il punto di vista medico, da un’altra non può avere con esso una sovrapposizione sic et simpliciter. Al dato percettivo, corrisponde una reazione panica, che prende il corpo senza poter essere diluita in una catena associativa: “Sono/Sei ingrassata”, diviene l’innesco a cui risponde una massiccia dose di angoscia, che punta direttamente a ciò che resiste a ogni dialettica: essere un oggetto cattivo, o non essere.
Il sintomo prende allora il controllo della vita del soggetto, prosciugandone l’angoscia, e con essa quel legame simbolico che potrebbe allentare le maglie dell’identificazione. La definizione di “malato” rischia quindi di funzionare come chiusura, totale rinuncia al simbolico poiché convalidata dall’Altro: “Sono un’anoressica”.
Parola
Ristabilire un piano simbolico dove il simbolico gira a vuoto, può non essere immediato. Tutte quelle attività espressive che non vincolano a un utilizzo troppo “in prima persona” del linguaggio, possono venire in aiuto.
Tutte le attività laboratoriali che si attuano con persone sofferenti di un disturbo alimentare sono caratterizzate dalla emersione involontaria di aneddoti, racconti, e ricordi, materiale che può emergere nella misura in cui in quel frangente si fa Altro e si parla d’Altro, ma che viene perso se contestualmente non viene colto dall’operatore, e rilanciato a livello di elaborazione propriamente detta, cioè di quella parola di cui il soggetto deve assumersi la responsabilità. Un’occasione persa, quindi, che riduce il laboratorio ad attività ricreativa, priva di utilità clinica.
Parlante e Parlato
A prescindere dal laboratorio specifico, ciò che accomuna queste attività dev’essere la direzione attiva da parte del soggetto, che va supportata e incoraggiata dall’operatore. Dev’essere cioè il soggetto a decidere cosa esporre all’attenzione altrui, e come esporlo, lui a narrare, non lui a essere narrato.
Cosa accade, dunque, se il soggetto viene tolto dalla posizione di narratore, sia pure in forma artistica, per essere messo in quella di oggetto narrato? Se il cibo dato con amore non ha impedito che una ragazza diventasse anoressica, perché uno sguardo anche benevolo dovrebbe risultare diverso? A ben vedere si tratta di un cambio di segno, ma non di logica. Non c’è però solo questo, perché quando si guarda benevolmente qualcuno, di solito succede pure che chi guarda si senta molto bene, molto buono, molto superiore, esattamente come chi ha nutrito. Accade cioè che la posizione di oggetto dello sguardo altrui, sguardo feroce e godente, viene a essere ripetuta: riempito di cibo come di sguardi, una posizione di oggetto alla duplice potenza, poiché ribadita.
Intimità
Una cosa è narrare in prima persona, altra è essere esposti. Una cosa è recitare, o fare un laboratorio di regia, altra è essere esposti nella propria intimità. Quella intimità che è stata soffocata da oggetti domandabili, e che non è riuscita ad articolarsi nei termini sempre incerti del desiderio, tanto incerti quanto però vivibili, può essere quindi ugualmente soffocata dagli sguardi, per quanto benevoli questi possano essere.
In questi casi, quando il controllo del cibo è gestito dall’autorità medica, il corpo troverà ovviamente un beneficio, ma se la logica resta immutata, questa troverà nuovi modi per esplicitarsi. Sarà un successo medico, ma analiticamente si tratterà solo di uno spostamento.
Acchiappa like
Si potrebbe dire che un soggetto può esporre volontariamente la propria sofferenza, sapere di essere visto nella propria intimità. Ma cosa c’è di diverso da una corsa in bagno subito dopo il pasto, per vomitare, o da una manica lunga sfoggiata in piena estate, sopra una lunga serie di tagli? Essere anoressiche non significa essere stupide. Cosa c’è di diverso, quindi, da una riedizione del sintomo?
C’è possibilità per un dire inedito quando si pone un limite allo sguardo, perché nel campo aperto da quel limite possa sorgere un interrogativo sul desiderio. In mancanza di questo limite si passa dall’erotismo alla pornografia, dalla narrazione all’osceno, dal: “Cosa vuole l’Altro da me?”, al: “L’Altro vuole questo da me, e io glielo do, sparendo al contempo come soggetto”.
Questo può non valere solo per chi è guardato, ma anche per chi guarda, nella misura in cui invece di occupare la posizione godente di chi dà lo sguardo benevolo, può riconoscersi nella posizione di chi è oggetto di quello sguardo, in un rispecchiamento bruto che, se non può essere lavorato in un contesto simbolico, può diventare fonte gratuita di angoscia. Può essere un’occasione per andare a parlare con qualcuno, certamente, ma vogliamo credere che nessuno abbia il diritto di giocare con gli equilibri altrui, a parte gli artisti forse, che però non hanno una responsabilità clinica.
Dott. Antonino Zaffiro