Ecco un primo stralcio di un intervista che S. Benvenuto fece a E. Facchinelli, lo psicoanalista che suscitò l’interesse di J. Lacan. Nonostante le criticità che Facchinelli riscontrava nella psicoanalisi ortodossa, egli decise comunque di rimanere all’interno della Società Psicoanalitica Italiana. E’interessante poter leggere cosa pensasse della modalità formativa dello psicoanalista classico.
Sull’«impossibile» formazione degli analisti
Conversazione di S. Benvenuto con Elvio Fachinelli
Nel maggio del 1987 Elvio Fachinelli accettò di avere con me una conversazione sui temi della formazione degli psicanalisti. Da anni egli era stimolato da questo problema, e aveva partecipato attivamente, assieme all’intervistatore, a un comitato ristretto di un partito politico che si proponeva di studiare modifiche alla proposta di legge Ossicini (allora non ancora approvata) sulla regolamentazione della professione di psicologo.
Egli sperava così di innescare un dibattito tra psicoanalisti, di smuovere le acque su una questione che egli considerava della massima importanza per la stessa sopravvivenza della psicoanalisi come attività creativa.
Purtroppo nel dicembre dei 1989 Fachinelli si è spento. Oltre al rammarico di aver perso un caro amico, l’autore dell’intervista è rattristato dal fatto che Fachinelli non sia riuscito a vedere la pubblicazione integrale di un’intervista alla quale teneva.
È un intervento in linea con lo stile di pensiero e di vita cui Fachinelli è rimasto sempre fedele: il non esitare a lavare i panni sporchi della famiglia in pubblico, la tendenza a non accettare i tabù e i luoghi comuni anche tra gli analisti, il dovere di dire pane al pane e vino al vino, l’ardore polemico non sostenuto mai da acrimonia personale, ma sempre da una forte tensione etica.
S.B.
Tu sei analista della Spi (Società psicoanalitica italiana), nella quale esiste una gerarchia ‑ in ordine crescente ‑ tra candidati, associati e ordinari.
lo sono nella Spi, ma solo come associato. In effetti la metà circa degli ordinari è costituita da didatti, vale a dire da analisti che hanno la licenza di svolgere analisi cosiddette didattiche.
Quanti sono gli ordinari didatti?
Saranno una sessantina. Vari anni fa, a un’assemblea della Spi, presentai una proposta per abolire la qualifica di didatta. Anche perché i didatti non sono o non erano neanche un’istituzione universale in tutte le società aderenti all’Associazione internazionale di psicoanalisi (Ipa). Allora fa nominata una commissione di studio su questo problema, che vegliò per due o tre anni, dopo di che si sciolse senza aver fatto nulla. E da allora le cose si sono ulteriormente appesantite! In questa situazione di gerarchizzazione spinta, da un lato non ho voluto uscire dalla Spi, perché la mia matrice è lì, ho fatto l’analisi con Musatti, e forse un residuo transferale, diciamo un affetto, mi ha trattenuto lì e il voler evitare l’ostracismo… dall’altra ho deciso risolutamente di non far carriera, di rimanere nella posizione laterale di associato. Una provocazione, se vuoi, qualcosa che molti imbecilli che mi sono passati davanti non capiscono neppure. Ma mi è sembrato coerente con ciò che ho sempre sostenuto nei confronti della società.
Come si esce dalla Spi? E come ci si entra?
Ogni anno si paga una quota, come per l’iscrizione a qualsiasi club. Se uno non paga, dopo qualche anno è considerato dimissionario. Ma credo che siano pochissimi i dimissionari. Per passare da un livello all’altro occorre presentare delle osservazioni di casi e così si sale via via la scala: da candidato ad associato, a ordinario e finalmente si arriva alla posizione di didatta. Per tutti, ma soprattutto per gli ultimi gradini, vale in fin dei conti un criterio di cooptazione. Quanto a me, non ho mai fatto nessuno dei passi necessari per passare oltre la semplice associatura. Ho continuato a scrivere e a pubblicare per mio conto. Proprio per rifiuto di queste corse a tappe, di queste procedure nelle quali si coniugano burocrazia e infantilismo.
Se è la struttura che non ti va perché hai proposto l’abolizione del didatta, piuttosto che proporre l’intera ristrutturazione dell’iter?
Perché non mi sembra insensata una differenziazione tra chi fa l’analista da un anno o due e chi lo fa da cinque, sette o più anni. Ora, l’analisi che per abitudine si continua a chiamare didattica dovrebbe esser condotta da un analista esperto, senza che entri in campo l’appartenenza a una specie di corporazione di «didatti». Fatta l’analisi, chi desidera entrare nella società di psicanalisi fa la sua domanda e la società è libera di accettarlo o rifiutarlo. E chi entra, entra a parte intera, senza riduzione di diritti che poi deve conquistarsi gradino per gradino. La sua analisi entrerebbe il meno possibile nell’ordine di passaggi controllati dall’organizzazione.
C’è spesso, anche se non sempre in modi evidenti, il desiderio di entrare a far parte dell’ordine costituito. Ma questo desiderio di una destinazione societaria per la propria analisi didattica dovrebbe essere ridotto al minimo, e posto nella condizione di poter essere analizzato. Invece l’esistenza di un circolo di didatti conferisce all’analisi una sorta di imprimatur preliminare, di garanzia, al diritto di ingresso nella società, che ostacola l’analisi stessa. E questo sia che il didatta sia poi impegnato direttamente nella procedura di ammissione, sia che non lo sia, come succede nella società italiana. Il didatta stesso, proprio perché si considera didatta, è interessato a che i suoi didattizzati siano ammessi. C’è qui qualcosa che falsa radicalmente il processo analitico. Forse al posto di analisi didattica si dovrebbe sistematicamente dire pseudo-analisi. Uno dei vari tipi di pseudo‑analisi esistenti oggi.
Attraverso la richiesta di eliminare i didatti mettevi in discussione il concetto di analisi didattica. Per esempio, nell’Aipa, una delle associazioni junghiane, prevalgono posizioni ‑così mi pare ‑ simili alle tue: per loro non c’è analisi didattica distinta dall’analisi comune. Aldo Carotenuto ha anzi dichiarato che «l’analisi didattica» per lui è una truffa.
lo sostengo questo paradosso: ogni analisi personale è un’analisi didattica nel senso che, inevitabilmente, se l’analisi procede, c’è l’assunzione della posizione di analista. Impari un pezzo di arte, insomma, e ne farai ciò che vorrai, che tu divenga analista oppure no. Con un’eccezione, che è, proprio quella dell’analisi didattica di oggi. Perché questa è condizionata pesantemente da una meta esterna, l’iscrizione al club Spi o altra società simile, e quindi falsata.
Un analista della Spi, D’Errico, disse in un congresso ‑ citando il suo barbiere, il quale parlava del suo apprendista ‑ che «il mestiere si deve rubare». Però nella Spi occorre avere dei colloqui con tre analisti didatti prima di essere presi in analisi e quindi in formazione.
Nel momento stesso in cui uno va a farsi ascoltare da un analista didatta ‑ che sia uno, due, o siano tre o quattro ‑ si propone dì farsi cooptare nella società. Quanto ai criteri con cui si viene ammessi o non ammessi, sono sempre, e per forza maggiore, dei criteri extra‑analitici, basati su impressioni, colpi d’occhio, idiosincrasie… o su quello che il didatta considera il suo fiuto, come quello di un cane da tartufi… È evidente che di fronte a questo primo passaggio dell’areopago psicoanalitico il candidato si muoverà in modo prudentissimo, in ogni caso in modo artificioso, s’informerà sui gusti di ogni esaminatore, così da presentare sempre a ciascuno di loro la faccia più bella, più seducente o semplicemente una faccia «media», che non evidenzi peculiarità pericolose… Questo è uno dei passaggi in cui la psicoanalisi è già commedia, pronta a diventare spunto teatrale o cinematografico, se qualcuno ne avesse voglia.
Dopo quest’esame, se il candidato è accettato, si considererà destinato a entrare in questa società che gli promette sicurezza, riconoscimento e ‑ last but not least ‑ clienti. Egli si sente promosso analista della società sin dall’inizio e baderà bene a non far nulla che possa minimamente ostacolare o rinviare questa sua destinazione.