Riporto qui di seguito le considerazioni che Paolo Roccato fa sui sintomi da attacco di panico e sul significato che possono avere per chi ne soffre.
L’esperienza di “insensatezza dell’esperienza attuale”
Il paziente sembra tenerci moltissimo all’ “insensatezza” dei “sintomi” di cui soffre. Vi sembra attaccato in modo terribilmente tenace, tendenzialmente refrattario a ogni sollecitazione a esplorare la sensatezza delle sue esperienze, mostrando un atteggiamento che ricorda per certi versi quello delle persone deliranti e che può logorare la pazienza dei terapeuti. Il fatto è che in lui è realmente deficitaria la capacità di connettere e di integrare gli elementi della sua esperienza emotiva: li percepisce come realmente scollegati tra loro.
Così può succedere che il paziente si senta non capito proprio quando si cerca di ricostruire la sensatezza delle sue esperienze, e questo perché il centro della sua esperienza sta proprio lì, nella insensatezza di quello che gli capita di vivere. Nella ricostruzione dei singoli episodi, gli va dato atto che quella dell’insensatezza era realmente la sua esperienza, e bisogna più e più volte, con infinita pazienza, mostrargli come le tessere del mosaico si possano comporre in una “figura” unitaria che è una esperienza emotiva del tutto adeguata, in quanto è del tutto corrispondente a ciò che egli stava vivendo in quel momento. Aveva tutte le ragioni di essere ansioso, o preoccupato o triste, o arrabbiato, o speranzoso o felice, o orgoglioso, o vergognoso, o in colpa, o annoiato, titubante, o quello che in quel momento era. L’esperienza emotiva non riconosciuta si è presentata a lui come una grandinata di sensazioni slegate, e per ciò stesso terrifiche.
In un mio lavoro(5) ho presentato il caso di un paziente gravemente analfabeta per quel che riguardava il mondo delle emozioni: ridottosi a essere solo e sperduto nell’esistenza, aveva per caso incontrato due vecchietti che l’avevano preso a ben volere, quasi adottato, come degli amorevoli sostituti genitoriali. “Mi vogliono bene e mi piace andarli a trovare. Deve essere molto polverosa la loro casa, però”, ebbe a dirmi, più o meno, un giorno, con aria pensosa e preoccupata. “Credo di essere allergico alla loro polvere, perché, quando mi trovo lì con loro, che mi fanno accomodare in salotto e mi parlano, tutti carini con me, e mi fanno raccontare quello che mi succede, mi viene un’irritazione… in fondo al naso, dietro… e anche agli occhi… Ed è come mi mancasse il respiro, come se sentissi una specie di groppo alla gola… come una specie di irritazione… come un pizzicore, che mi fa aumentare le secrezioni del naso e degli occhi… e passo il tempo col fazzoletto in mano…”. – “Ma è commosso!”, mi venne da esclamare. Al che il paziente si sciolse in un’onda calda di pianto, riuscendo, forse per la prima volta, a riconoscere per intero una propria emozione, facilitato nello strutturare la percezione emotiva dal sentirsi da me riconosciuto in quell’esperienza. Prima, invece, cercando una sensatezza in ciò che andava vivendo allora e ricordando ora, aveva colto gli accadimenti psichici che si erano attivati in lui come “sensazioni”, e li aveva connessi tra di loro attraverso l’utilizzazione dei (da lui ben conosciuti) parametri sanitari come organizzatori dell’esperienza, strutturando la percezione come fossero “sintomi” somatici di un disturbo fisico: l’allergia alla polvere. Non riuscendo ad attivare l’intelligenza emotiva, che per lui da lungo tempo non era più una risorsa disponibile, per integrare i dati che aveva a disposizione non poteva fare nient’altro se non ricorrere alla sua intelligenza cognitiva. La quale, quando è attivata da sola, privata dell’apporto dell’intelligenza emotiva, rischia di rimanere del tutto “stupida” per quel che riguarda gli aspetti più vitali dell’esistenza.